giovedì 17 ottobre 2013

Repave - Volcano Choir. Mentre guardate uomini nel cielo.



Io sono socialista. Nel senso lato del termine, sia chiaro. Il mio socialismo, libero da pretenziose inclusioni partitiche e politiche, nasce dalla viscerale convinzione che siamo tutti uguali. L'uguaglianza formale (e non materiale, essendo anche un acceso sostenitore della meritocrazia. Quella vera) si fonda sull'idea che non esistano esseri umani superiori agli altri. Ciò rinsalda le mie convinzioni antirazziste, il sogno di un mondo migliore, più fraterno e più giusto. Insomma, lontano dalle visioni capitalistiche, feudatarie e medioevali che governano questo mondo. Io, quando vedo il più grande uomo sulla terra, penso semplicemente che sia stato più fortunato e più bravo di me nello sfruttare le occasioni ricevute e le sue doti. Esistono le eccezioni però. Divento un fottutissimo bimbominchia pensando a Roger Waters e Fabrizio De Andrè. A volte penso che metterebbero alla prova la mia virile e conclamata eterosessualità:
-Vi, se mi dai il culo ti scrivo qui sul momento un nuovo "The Pros and Cons of the Hitch Hiking" o se preferisci "The Wall" o The Dark Side of..
-Roger...ero già nudo a "The Pros"
Ecco, ci siamo capiti. Probabilmente non mi prostituirei così, ma sarebbe comunque un pensiero da fare. A questi due colossi, negli ultimi anni, si è aggiunto Justin Vernon. Probabilmente ad un suo concerto nelle vesti di Bon Iver griderei come una femminuccia emozionata. Senza il probabilmente. Justin Vernon è una ventata d'aria fresca nel mondo musicale internazionale. È un genio, stop. Ha una sensibilità musicale che si può notare solo nei più grandi: da Peter Gabriel, Brian Eno, il già citato Roger (oh, Roger!!!), Neil Young, ecc, ecc. Nonostante la giovane età ha una produzione musicale di tutto rispetto. Particolarità unica è il suo dividersi in progetti totalmente diversi. Oltre ai miei venerati For Emma, Forever Ago e Bon Iver con il suo progetto principale e ai tanti altri progetti minori (vi invito a leggerli tutti sulla sua pagina Wikipedia se no perdo troppo tempo) oggi voglio parlare dei Volcano Choir. Il progetto più sperimentale e, quindi, più coraggioso. Non solo suo ma anche della grandiosa e innovativa etichetta Jagjaguwar. Circondato da professionisti seri che contribuiscono a lasciare il genio di Justin libero di esprimersi, il nostro eroe del Wisconsin riesce nuovamente ad emozionarmi. Dopo Unmap, forse un pelino troppo sperimentale per i miei gusti, nasce quest'anno Repave. I richiami al suo personalissimo gusto indie ci sono, ma si differenzia dal progetto Bon Iver per le sonorità maggiormente Ambient. Non so se c'è una canzone di punta. È un delizioso tappeto musicale continuo. La sua voce unica non esce fuori con prepotenza emotiva come in album come Bon Iver. Insomma, l'emozionante chiusa di Calgary non c'è, ma usa i suoi strepitosi mezzi vocali per accompagnare al meglio la struttura musicale. I suoni sono ricercati. Si capisce che cerca di intraprendere un cammino intellettuale più ampio, aperto al contributo degli altri membri. Forse per questo mancano le sue eruzioni geniali, troppo concentrati sulla sua figura quando mette i panni del "buon inverno". Quest'album però va ascoltato con un'altra ottica. Va lasciato lì mentre fate altro. Il falsetto, alternato al tono da boscaiolo dell'america più selvaggia vi aiuterà a conciliarvi meglio con la vita. Capirete che ci sono grandi uomini, per citare un capolavoro della musica italiana "Uomini Celesti". A questi uomini bisogno unirsi e non osservarli mentre fanno le loro sfilate nel cielo. Basta smettere di interpretare il proprio copione nel mondo e iniziare ad essere liberi autori. Mentre riscoprite il gusto di vivere potreste ascoltare quest'album. Nell'ascesa al cielo consiglio ancora Bon Iver ma questo sarebbe una buona colonna sonora nel pre viaggio. Magari per fare la valiga. Eh già, ecco!

Volcano Choir – Repave

Vi

giovedì 25 aprile 2013

Babel e acqua fredda





Se l'Indie Folk fosse una squadra di calcio, Babel sarebbe una funambolica ala sinistra. Veloce, tecnica e con un'incredibile capacità di rientrare e tirare a rete facendo gol. Perché I Mumford and Sons il gol lo fanno. Credimi. Ti schieri contro e loro ti saltano come un birillo. Ti prendono e ti bevono come un bicchiere d'acqua. All'inizio li guardi con diffidenza. "Che fisico strano" "Sembrano simili a quell'altra ala ma quello sì che è un campione" "Ma può giocare in questo campionato?". Poi iniziano a giocare e non ce n'è per nessuno. Tecnici e fantasiosi. La paura che stiano lì lì per esagerare c'è sempre ma loro sono bravi a mantenersi nei limiti consentiti. Il banjo non rompe mai...o quasi mai. Sono giovani, magari in futuro riusciranno a offrire nuovi spunti, magari in maniera più europea ora sono puro sound americano, nonostante siano nati al di qua dell'oceano nella terra d'Albione. Un buon tennesee whiskey da gustare allungato con l'acqua per percepire meglio la spigolosità del sapore. C'è tanto delle vaste lande americane in quest'album. Ci sono i grossi van con gli adesivi delle aquile in volo dietro: Give Wildlife a change. Ci sono gli anni 60 e ci sono i miei amati Simon and Garfunkel. Ci sono davvero: una bella cover di "The Boxer" che ben lega col sound della band sarà il preambolo della chiusura di questo viaggio. L'album inizia con la canzone che da il titolo all'album. Mettono subito le carte in tavola e ti aggrediscono a colpi di cieli azzurri e vasti e un sole splendente poco sopra l'orizzonte. Il viaggio inizia senza accorgersene. Nelle canzoni dopo ti ritroverai in quelle locande tipiche delle strade del centro america con la cameriera che ammicca. Troverete il suo corpo nudo, sudato, pieno di vita, con quegli occhi che ti implorano di portarla con te verso la California. "No baby, un'altra volta." Un'altra volta perchè il viaggio è tuo. Qui, oltre la California, c'è da scoprire se stessi. Sì, è proprio uno di quegli album. E te ne accorgerai dalla doppietta "I will wait" e "Holland Road", una dopo l'altra. Spotify le ha sentite così tante volte che nei fastidiosi spot inizia a chiedermi di cambiare genere. La prima ti chiede semplicemente un prato dove correre. Non pretende molto. Se ci fosse una di quelle bionde vestite da indiano, tipica dei film americani, sorridente con i capelli raccolti sarebbe meglio: "aspetterò per te", avrebbe più senso. Sei fisicamente esausto ed è solo la terza canzone. cosa diavolo può esserci di meglio? C'è di meglio. Illumina la stellina. Fidati di Vincenzo tuo. Holland Road è una canzone geniale. La ballata che non ti aspetti. All'improvviso si acquietano. Forse è una tempesta estiva che ti travolge. Qui l'introspezione parte, dopo l'arpeggio iniziale, con il trillo del banjo e il ritmo serrato della chitarra. Qui c'è davvero il viaggio, con tutte le sue sfumature. Qui c'è la California, gli occhi della cameriera lasciata sola in quella bettola, c'è una terra lontana che bisognava lasciare a tutti i costi, c'è il verde del centro Usa e i deserti dell'ovest che finiscono, come una promessa di resurrezione nel Pacifico. Il cammino non è finito. "Ghost That We Knew" è come un rimpianto che ti prende all'improvviso. Dolce e tenero. "Lover of the light" ti rimette in carreggiata con il bel sound ibrido. "Lover Eyes" è in linea con le precedenti. Sembrano proprio due occhi nuovi, magari di una Mary Lou qualsiasi, amata in un Motel, e troppo presto abbandonata. O forse è lei che se n'è andata, con il portafogli e tutto. Qualsiasi sia la verità aveva begli occhi, Mary Lou. Ci pensi e "Reminder" è finita senza aver lasciato il segno. Troppo veloce. Qualcuna non ha voluto il tuo drink. Aggiungici l'acqua e manda giù. La strada è lunga e te lo ricorda "Hopeless Wanderer", una delle migliori dell'album. Qui Marcus Mumford si esalta. La sua voce melodiosa lascia spazio a tutte le sue increspature potenti. Sei su una decappottabile e sfrecci a tutta velocità. Le nuvole all'orizzonte non puoi raggiungerle ma sembra che te ne sia dimenticato. "Broken Crown" inizia che hai il piede ancora pesante. Cazzo, ma a quanto vai? Marcus grida come un pazzo e gridi anche tu verso il cielo del Texas diventato ormai scuro, nuovamente. Questa è la canzone più scura e tu devi fare i conti con te stesso o almeno con quella parte che vuoi scrollare e lasciare lì, negli States, a fare autostop. "Below my feet" annuncia che l'arrivo è vicino. "Not with Haste" è un altro drink mandato giù. Tanto fa bene. Su "For Those below" arrivi. Ti accoglie una festa country-folk e americani puro sangue che giustamente ascoltano la già citata cover del baluardo dei liberi anni 60. Bevi ancora, pensi a casa tua, così lontana. Ti perdi negli occhi di un'altra sconosciuta. Non pensi a niente se non al fatto che questo viaggio, la vita te lo doveva. Ma "Where are you now" come dice il titolo, ti ricorda che puoi anche correre fino in California ma poi ti chiederai sempre dov'è qualcuno. Qualcuno in particolare. Qualcuno da cui sei scappato. E capisci che hai fatto tutta quella strada, hai visto tutti quegli occhi tristi pieni di disperazione e non di libertà perché ora tu possa fare la strada al contrario e correre a risolvere un paio di casini. Vai, Babel dei Mumford and Sons potrà aiutarti. Sia che tu sia in viaggio verso lo sconfinato cielo californiano sia che tu voglia fermare un paio d'occhi che hai lasciato andare via troppo facilmente. Accendi la macchina, sistema lo specchietto. Il whiskey l'ho preso io.

Vi

mercoledì 24 aprile 2013

Calma piatta





La parola ‘spensierato’ dà un senso di leggerezza, di pace, di beatitudine. Porta con sé qualcosa di etereo, luminoso, paradisiaco. Se il punto in cui Dante incontrò Beatrice aveva un nome, io punto tutto su Viale Spensierato. Ma fermiamoci un attimo: letteralmente, spensierato vuol dire  senza pensieri. E quante volte abbiamo detto di sentirci spensierati? Tante, dai. Ora, se il buon Aristotele sillogismomane aveva ragione, da queste prime due tesi ne deriva che tante volte abbiamo vissuto senza pensieri. E adesso io vi chiedo: è possibile? E rispondo io per voi: no. Già il fatto di chiedersi, in un momento di presunta spensieratezza, se si sta pensando a qualcosa è già questo un pensiero! 
Va bene, pippe mentali a parte. Il senso di spensieratezza credo sia comunque raggiungibile. Attenzione, parlo di senso di spensieratezza, non di spensieratezza assoluta. È come la felicità. La felicità assoluta non esiste. Per quanto tu possa elencare tutti i fattori che ipoteticamente possono renderti pienamente felice, nel caso in cui un giorno dovessi averli tutti, comunque non saresti felice. Perché? Perché l’uomo è perennemente insoddisfatto e perché di rado si rende conto di quello che ha. Pensa sempre a quella microscopica cosa che gli manca e, se apparentemente non gli manca niente, vedrai che all’improvviso avrà l’urgenza di un assurdo qualcos’altro. Come quando hai davanti a te un piatto di patatine fritte, ketchup e maionese ma ti viene un’improvvisa voglia di mostarda. Dicevo? Devo smetterla di divagare. Ah sì, il senso di spensieratezza. Bene, si può raggiungere. Senza dubbio. Prova ad ascoltare Valtari dei Sigur Ros. La copertina dell’album funge da prologo a quest’epopea degna di un encomio pari a quello fatto alla bella Elena di Troia: c’è il mare, e le ombre, e luce filtrata e sembra un tramonto. Trai i pixel monettiani dell’immagine, emerge una nave, o forse una barca, a mezz’aria. È un viaggio nel vago, nell’indefinito, nel sublime. No, a sto giro non sto divagando. Clicco su Daudalogn: sono pronta a scommettere che il viandante sul mare di nebbia stesse ascoltando questa lassù. Ed ecco che il senso di spensieratezza esiste davvero. Chiudo gli occhi. Questa canzone dalla lingua incomprensibile (o per lo meno accessibile a pochi) mi fa sentire leggera e mi toglie dallo stomaco il peso della pizza al salame che ho mangiato stasera. Se davvero esiste un paradiso, sono convinta che passino questa.
Questo islandese criptico mi intriga: sembrano voci distorte di proposito per rendere i messaggi inaccessibili. Ed ecco Ekki Mukk, che per quanto possa sembrare minchione come titolo, nasconde un’altra perla. Seppure prettamente ambient, quest’album ha delle venature elettroniche decise, graffianti. Stridono come il dito su un piatto di porcellana appena uscito dalla lavastoviglie. No, non è un suono che dà fastidio. È penetrante. Ambient, elettronica e un paio di acuti dell’arcangelo Gabriele fanno di quest’album un corpo contundente. Dopotutto loro ci avevano avvisati: Valtari in islandese vuol dire rullo compressore. 

Stef


giovedì 28 marzo 2013

Bon Iver in tempesta




Stefania è andata sul facile. Abbiamo iniziato con un album di quelli che piace a tutti e due. Lei poi, lontana com'è, l'ha preso subito per un modo per teletrasportarsi sulle spiagge di questo posto che, per tanti e lunghi mesi, è dimenticato da Dio. Ora sono lì, a casa, e piove. Per le strade i volti che camminano, fianco a fianco, per difendersi da chissà che cosa ti danno il loro tiepido benvenuto. Anche io, quindi, dal mio angolo di casa dove si vede da una parte la tavola azzurra in lontananza dove Stef corre mano nella mano con Zachary Condon e dall'altra i monti innevati al confine con la Calabria, decido di andare sul facile: Bon Iver dell'omonimo gruppo si è messo su da solo su Grooveshark. Justin Vernon che sa bene cosa dirmi in queste serate, mette su il suo album migliore. O meglio, l'album litiga continuamente con For Emma, Forever Ago per la palma del miglior lavoro di uno dei tanti progetti musicali del giovane cantautore statunitense...che Dio lo benedica. L'album inizia con Perth. E porca miseria, che inizio. Quel riff che te lo aspetti da qualche grande. Questa cosa però la pensi solo all'inizio del tuo incontro con Justin (oh oh, che nome terribile però. Così bimbominchioso), poi ti accorgi che i Bon Iver sono grandi. Sono già tra i più grandi. La canzone va via con un'arrangiamento della madonna. La batteria ti fa capire che non c'è niente lasciato al caso. Ritmo, amore, passione. E se Stefania corre su quelle spiagge io sono già sotto una tempesta, tra una goccia e l'altra, a gridarle contro  che sono più forte io. Minnesota, Wi ti accoglie con un arpeggio che ti fa stemperare i bollori. Poi con la linea di chitarra elettrica così delicata e la voce profonda, in un agro dolce azzeccatissimo, ti accorgi che ti stai riscaldando per il top. Holocene è l'anticamera. Una delle più apprezzate del gruppo. All'inizio potrebbe anche confondersi con sonorità tipiche dei Sigur Ros. Il tipico timbro di Justin fa capire che non è così. C'è altro. Lo capisci quando inizia Towers. La mia preferita. Il riff è spaventoso. Geniale. Anni 70 andanti. Poi il sax e i fiati ci ricordano quanto questo gruppo sia all'apice tra i migliori rappresentanti del Indie Folk. Ascolto questa canzone è capisco perchè questo genere, giorno dopo giorno, conquisti regioni sempre più vaste del mio cuore. Bel testo, bel arrangiamento, bell'atmosfera e Wau Wa U (non so scemo, ascoltate). Michicant, come una fiaba, accompagna i sensi verso un rilassamento sensoriale che continua con Hinnom, Tx. In questi pezzi c'è una ricerca musicale che intravedo solo nei grandi gruppi post-rock degli ultimi anni. Stessa cosa per Wash. dove però Vernon torna ad esibirsi con il suo timbro da fuoriclasse. La canzone fa da interludio prima dell'altro grande pezzo dell'album: Calgary. "So it’s storming on the lake Little waves our bodies break". Che dicevo prima? Ecco, sono di nuovo in corsa sotto l'acqua. Sento ogni singola goccia rimbalzarmi addosso. Troverò riposo solo nell'ultimo pezzo. Già lo so. Ora però devo muovermi. ancora per un po', almeno fino alla fine del pezzo. Lisbon, è una breve suite musicale. Ben fatta. Qui davvero sembra made in Iceland. Non è così. Siamo ancora in Wisconsin. Ma per terminare un album sorprendente serviva l'ultima perla: Beth/Rest. Qui sembra esserci Phil Collins in uno dei suoi pezzi più ispirati. I synth, che potrebbero risultare fuori luogo, non lo sono. Il distorsore leggero accompagna in un onirico tappeto di note. Un'atmosfera dolce, calma. La mia corsa, praticamente, si ferma qui. Questa canzone è il viso che si alza verso il cielo per beccarsi l'ultima scarica della tempesta. Viene giù, proprio come si sperava in un pezzo dell'ex leader dei Genesis. Il solo finale sono le gocce che scorrono via insieme alla tempesta che ora è sedata. come alla fine di una corsa si respira a pieni polmoni. Ora sì che sto bene. Per me l'estate può attendere. Ho un inverno che è finito da troppo poco tempo per non finire i conti che abbiamo in sospeso. L'atmosfera di quest'album me lo farà affrontare per bene e alla fine me lo farà vincere. Inizio con una sicurezza, quindi. Ancora lontano dalle spiagge dove Stefania affronta il freddo inizio primaverile di Cambridge. Lontano da tutto. Ma più vicino possibile da quello che, musicalmente parlando, è il meglio per me.

Vi




Il video scelto è quello di Towers. Qui trovate una playlist su Youtube dell'album. Mentre qui l'intero album su Grooveshark con tre bonus Tracks.

mercoledì 27 marzo 2013

The Rip Tide e l'estate italiana.




Groupon non è sempre una sola: mesi fa ho comprato un paio di auricolari veho isolanti e antigroviglio. Vabbè, l’antigroviglio è palesemente una cazzata, ma isolanti lo sono davvero. Ed è questo ciò che conta. Sono in un bar italiano nel centro di Cambridge. Entro, lei mi dice “hello” ma dai lineamenti e dal sorriso a 32 denti capisco che è italiana. “Ciao!” rispondo con un sorriso a 32 denti anch’io. Ci brillavano gli occhi, lo so. Ci lamentiamo sempre dell’Italia e degli italiani; diciamo sempre “eh, classica merda italiana”. No no, ragazzi. Niente è come lei. Il calore della gente, i sorrisi degli sconosciuti, i poco raffinati complimenti dei muratori avvinghiati alla loro birra da 0,66 cl, il cibo, il clima. Dio Santo, il clima. Agogno i 20 gradi come poche altre cose. Come i ruccoli di nonna, forse.
Devo dire che non è freddo come ci si potrebbe aspettare.  In questo bar italiano nel centro di Cambridge ci saranno almeno 25 gradi. E per questo devo ringraziare Zachary. No, non è una nuova marca di condizionatori, è un ragazzo poco più grande di me, 27 anni, e una voce che sembra abbia iniziato il suo rodaggio nei magnifici anni 70. Avete presente quando mandate giù un sorso di cioccolata calda in una fredda serata d’inverno avvolti nella vostra coperta sul divano di casa? Ecco, la sua voce dà la stessa sensazione di tepore. Senti quel calore andare giù per l’esofago e propagarsi per tutto il corpo. Fa caldo ora. Credo che legherò i capelli. Nelle mie veho isolanti risuona The Rip Tide: Zachary e i Beirut sono riusciti a creare  un capolavoro musicale in un periodo in cui l’invasione della musica spazzatura ha seminato terrore quasi quanto quello che ha spinto un illuminato gruppo di argentini al suicidio di massa pre-fine del mondo.
9 tracce, poche parole e musica calda. Si distinguono un ukulele, una tromba, un tamburello, una chitarra e una voce che è come un quartetto d’archi nella basilica di san Pietro. Provo a chiudere gli occhi. Parte Santa Fe: ecco, mi vedo in macchina, posto accanto al guidatore, piedi sul cruscotto e mani che tengono il tempo battendo sulle ginocchia abbronzate dal caldo sole di luglio. Sono le 17 e noi stiamo tornando a casa dopo una giornata al mare. Finestrini spalancati, capelli scompigliati e guance arrossate e pelle salata. Zachary lasciami qui. Su questa strada, che necessiterebbe di una colata di cemento ma che il sole caldo delle 17 e il profilo sinuoso  degli alberi fanno sembrare come la route 15 Los Angeles - Las Vegas, mi sento libera, spensierata, felice. 
Parte The Rip Tide che dà il nome all’album. Note a tratti languide. I tasti di un pianoforte pigiati con decisione e delicatezza accompagnano questo pezzo coinvolgente che porta con sé la dolcezza indie delle voci gridate in bicchieri di vetro e quella musica che sa di terra. Quella terra umida che ti resta nelle unghie e che dà refrigerio ai piedi scalzi che ballano sotto il tuo vestito bianco di lino. Ora sei un po’ gitana. La tua gonna crea dei cerchi dai bordi imprecisi.
“Could you take me another large espresso, please?” Dannazione sono ancora qui. In un bar italiano nel centro di Cambridge con i miei auricolari veho isolanti, in un grigio giorno di marzo che niente ha di primavera.  Piove. I pneumatici delle auto inglesi schizzano l’acqua delle pozzanghere sul lato sbagliato della strada. Non m’importa. Zach e il mio caffè bollente mi portano lontano, dove c'è sempre caldo, sotto i 25 gradi dei tramonti estivi.

Ste