mercoledì 27 marzo 2013

The Rip Tide e l'estate italiana.




Groupon non è sempre una sola: mesi fa ho comprato un paio di auricolari veho isolanti e antigroviglio. Vabbè, l’antigroviglio è palesemente una cazzata, ma isolanti lo sono davvero. Ed è questo ciò che conta. Sono in un bar italiano nel centro di Cambridge. Entro, lei mi dice “hello” ma dai lineamenti e dal sorriso a 32 denti capisco che è italiana. “Ciao!” rispondo con un sorriso a 32 denti anch’io. Ci brillavano gli occhi, lo so. Ci lamentiamo sempre dell’Italia e degli italiani; diciamo sempre “eh, classica merda italiana”. No no, ragazzi. Niente è come lei. Il calore della gente, i sorrisi degli sconosciuti, i poco raffinati complimenti dei muratori avvinghiati alla loro birra da 0,66 cl, il cibo, il clima. Dio Santo, il clima. Agogno i 20 gradi come poche altre cose. Come i ruccoli di nonna, forse.
Devo dire che non è freddo come ci si potrebbe aspettare.  In questo bar italiano nel centro di Cambridge ci saranno almeno 25 gradi. E per questo devo ringraziare Zachary. No, non è una nuova marca di condizionatori, è un ragazzo poco più grande di me, 27 anni, e una voce che sembra abbia iniziato il suo rodaggio nei magnifici anni 70. Avete presente quando mandate giù un sorso di cioccolata calda in una fredda serata d’inverno avvolti nella vostra coperta sul divano di casa? Ecco, la sua voce dà la stessa sensazione di tepore. Senti quel calore andare giù per l’esofago e propagarsi per tutto il corpo. Fa caldo ora. Credo che legherò i capelli. Nelle mie veho isolanti risuona The Rip Tide: Zachary e i Beirut sono riusciti a creare  un capolavoro musicale in un periodo in cui l’invasione della musica spazzatura ha seminato terrore quasi quanto quello che ha spinto un illuminato gruppo di argentini al suicidio di massa pre-fine del mondo.
9 tracce, poche parole e musica calda. Si distinguono un ukulele, una tromba, un tamburello, una chitarra e una voce che è come un quartetto d’archi nella basilica di san Pietro. Provo a chiudere gli occhi. Parte Santa Fe: ecco, mi vedo in macchina, posto accanto al guidatore, piedi sul cruscotto e mani che tengono il tempo battendo sulle ginocchia abbronzate dal caldo sole di luglio. Sono le 17 e noi stiamo tornando a casa dopo una giornata al mare. Finestrini spalancati, capelli scompigliati e guance arrossate e pelle salata. Zachary lasciami qui. Su questa strada, che necessiterebbe di una colata di cemento ma che il sole caldo delle 17 e il profilo sinuoso  degli alberi fanno sembrare come la route 15 Los Angeles - Las Vegas, mi sento libera, spensierata, felice. 
Parte The Rip Tide che dà il nome all’album. Note a tratti languide. I tasti di un pianoforte pigiati con decisione e delicatezza accompagnano questo pezzo coinvolgente che porta con sé la dolcezza indie delle voci gridate in bicchieri di vetro e quella musica che sa di terra. Quella terra umida che ti resta nelle unghie e che dà refrigerio ai piedi scalzi che ballano sotto il tuo vestito bianco di lino. Ora sei un po’ gitana. La tua gonna crea dei cerchi dai bordi imprecisi.
“Could you take me another large espresso, please?” Dannazione sono ancora qui. In un bar italiano nel centro di Cambridge con i miei auricolari veho isolanti, in un grigio giorno di marzo che niente ha di primavera.  Piove. I pneumatici delle auto inglesi schizzano l’acqua delle pozzanghere sul lato sbagliato della strada. Non m’importa. Zach e il mio caffè bollente mi portano lontano, dove c'è sempre caldo, sotto i 25 gradi dei tramonti estivi.

Ste



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